Notizie Radicali
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  giovedì 25 maggio 2006
 Direttore: Gualtiero Vecellio
Rispiegare la modernità?

di Luigi Castaldi

Premessa Nel suo intervento alla Camera del 22 maggio 2006, nel corso del dibattito sulla fiducia al governo Prodi, Daniele Capezzone ha detto in un punto: “Siamo qui anche per proseguire il suo percorso [di Luca Coscioni], celebrato da tanti (post mortem), ma anche così tormentato e ostracizzato (in vita) dagli oscurantismi, dalle superstizioni, dalle paure della modernità, che sembrano segnare tanta parte del ceto dirigente del paese”. Il riferimento alle “paure della modernità” ha sollecitato un mio amico a commentare sul suo blog: Se in tanti hanno paura della modernità è perché in tanti non hanno idea da dove muova […] La cosiddetta ‘modernità’ è […] un progetto ampio, l’uscire dell’uomo dalle secche dell’impotenza e del patimento di fronte al destino mortale, con i propri mezzi […] Secondo me il senso della modernità andrebbe rispiegato, perché mica tutti […] se ne ricordano il senso”. Le seguenti note non hanno alcuna pretesa di “rispiegare” un concetto per il quale sono stati versati fiumi di inchiostro e che farebbe tremare i polsi anche al profondo e colto saggista ch’io non sono; vogliono solo puntualizzare – e dal limitato punto di osservazione di un laicista convinto della ineludibilità della modernità – i vizi di fondo nella sensibilità dell’uomo della tradizione che ha l’illusoria pretesa di eluderla, nelle forme dell’ancor più illusoria soluzione dell’uscita da essa (restaurazione). Non a caso attacco queste considerazioni da uno dei punti massimamente illusori di questa inadeguatezza alla modernità che ha generato un sistema di ripresa della tradizione fin quasi visionario e, se si vuole, allucinatorio: quello degli accoliti della Comunità San Pio X, gli scismatici lefebvriani che oggi sono in piena trattativa col nuovo pontefice per un rientro nell’autorità romana – trattativa resa possibile (fatte salve le difficoltà relative ai contrasti sulle tematiche liturgiche del Concilio Vaticano II) da più d’una mera sintonia ideologica. Sì, ideologica: perché la tradizione altro non è che un proiettato dell’irriducibilità (dialettica) alla modernità, contrariamente a quanto affermano tutti gli uomini della tradizione (posto caso la tradizione sia una – e qui asseconderò questa ipotesi per esemplificazione argomentativa). La tradizione altro non è – questa la tesi in queste pagine – che la particolare nevrosi di taluni (soggetti, più spesso gruppi) scatenata dalla modernità. Aggiungerei: da una scena primaria della modernità. Come vedete, ho molto da chiarire.

1 “Tradidi quod et accepi” (1 Cor 15, 3) – in altra versione (non altrettanto piena): “tradidi vobis quod accepi” – è la frase di San Paolo che monsignor Marcel Lefebvre vagheggiava già in vita come epitaffio tombale. E non a caso citava la versione “piena”, perché il senso di quell’et è un “semplicemente” che dà al tradere la protezione da tutto ciò che nuovo: “je vous ai transmis ce que j’ai reçu, simplement ceci”, glossava – e “simplement ceci” è la lirica epitome di tutto il corpus della tradizione. Il nuovo – quale che ne sia il segno, e il modo – è il nemico della tradizione: chi vuol tradere quod et accipit non può fare a meno di guardarsi dal nuovo – e il nuovo che minaccia la tradizione cristiana irrompe nella Storia, per monsignor Lefebvre (ma non solo), già dal XIII secolo. E’ da quel punto, che è allo stesso tempo l’apogeo del cristianesimo e l’inizio della sua caduta, che il nuovo si struttura nella forma che poi si schiuderà nel moderno. Da quel punto, per progressiva cataratta (Umanesimo, Riforma, Illuminismo, Democrazia, Liberalismo – di poi, Lefebvre profetizza Satanismo e Castigo Divino), si arriva all’imo. Ma lì, “il mio Cuore Immacolato trionferà” (Fatima): Lefebvre scrive Restaurazione, ed è come il punto all’orizzonte nel quale terra e cielo si toccano e s’indistinguono. E’ il moderno – la modernità – il problema cogente di ogni vero difensore della tradizione. La sistematica della difesa (al pari di ciò che si ha nella procedura nevrotica) non può che essere approntata in vista di una perdita: la modernità è una sottrazione. Le sue declinazioni storiche sono composte in una spirale nella quale si avvita la perdita di senso, e il senso di ogni cosa si perde con la sua secolarizzazione – con la perdita del senso che la inscrive nella trascendenza. La cosa perde il suo senso – si svuota, generando disagio fino a sofferenza vera – nella misura in cui si secolarizza, nella misura in cui si allontana da Dio per spostarsi verso l’uomo. Sia chiaro, non è la cosa che si sposta: è l’uomo che la trascina con sé allontanandosi da Dio. Cosa lo fa allontanare? Satana, ovviamente. Satana seduce l’uomo, come già fece all’ombra delle fronde dell’albero del bene e del male, facendogli la promessa dell’onnipotenza e dell’onniscienza. L’uomo della tradizione sa come va a finire: è in gioco il paradiso terrestre. E però sa che il paradiso terrestre è già stato perso una volta: è su questa perdita primigenia che si fonda la caduta umana – la Storia è la teoria di stanze che s’infilano a partire dal peccato originale. La salvezza – l’irrompere di Dio in queste stanze, l’incarnarsi di Dio in Cristo, l’entrata di Dio nel secolo per trarne fuori l’uomo, verso il Regnum – è possibile per l’uomo della tradizione: con il rifiuto della modernità, con la Restaurazione. Quanto questo sia realmente possibile attiene alla fede, perché se viene meno il credere qui absurdum (la fede nell’incarnazione e nella resurrezione) salta tutto. Nel caso dell’uomo della tradizione che pensa di poter fare a meno di Dio (l’ultimo è quello dei cosiddetti “atei devoti”), il dramma della Restaurazione (la rappresentazione tragica del tentativo di recupero del corpus della tradizione) diventa farsa: della trascendenza si vorrebbero recuperare gli effetti, prescindendo dalla causa o sospendendola fuori dalla fede – la postura eroica (singolarmente eroica) del cristianesimo ne diventa la parodia eroicomica.

1.1 L’idea di modernità fonda su un principio – quello del progredire umano lungo alterne vicende – che l’uomo della tradizione esecra. Non ha tutti i torti: dalla sua ha la ragione che gli porge colui che potremmo definire il progressista escatologico, il tizio che non sa fare a meno di Dio e deve divinizzare l’uomo e il suo progredire – che vorrebbe rientrare nel paradiso terrestre dopo averlo bonificato di trascendenza. Diciamolo: costui è un cretino e, senza saperlo, offre diversi argomenti all’uomo della tradizione, che in ogni nefas delle alterne vicende umane legge gli effetti del peccato e in ogni fas una pericolosa fallacia che non tarderà a trasformarsi in nefas. Il progressista escatologico, diciamolo, è a suo modo – come l’uomo della tradizione – un disadattato alla modernità. La quale – sarà il caso di chiarirlo subito – è sommamente dialettica e, dunque, non si risparmia critiche – spesso mortali, addirittura – ma è da quelle che trae il motore per progressivi adattamenti della realtà (tutta) all’uomo. Il progresso ateleologico – il progressivo secolarizzarsi della vita umana – è appunto questo procedere per errori, pagando per ciascuno d’essi come è nella norma che, da sola, regge l’autodeterminazione: la libertà è responsabilità piena e totale dell’uomo – un peso enorme, se si vuole – che genera spesso disadattamento e talvolta (al pari di ciò che si ha nella procedura nevrotica) difesa nella coazione a ripetere. Ripetere cosa? Ma è ovvio: il passato. Ma sarebbe sgradevole chiamarla nevrosi: chiamarla tradizione ne sarà – oh, splendido paradosso! – sublimazione.

2 La complessità della modernità è nel suo essere composito. La modernità è, insieme, (2.1) questione storiografica, (2.2) modalità di autopercezione umana e (2.3) dimensione politica (in senso lato e stretto).

2. 1 Il moderno cerca limiti storici, l’uomo della tradizione li cerca tramite i caratteri della modernità. La storiografia non lesina elementi perché la ricerca dei modelli caratteriali trovi infine limiti storici. Generalmente, si è soliti parlare di inizio della modernità col Quattrocento. I modelli caratteriali sono quelli che la modernità proietta come cesura negli ambiti di attività umana: la stampa, la scoperta dell’America, la rivoluzione scientifica, la Riforma, i primi bagliori del capitalismo, lo Stato moderno, un rapporto tra uomo e natura che comincia a prescindere da categorie autoritative. Il segno distintivo di questa cesura è la multifattorialità: più ambiti sono stravolti, più marcato si fa il limite – e la modernità si autodefinisce (giacché la tradizione non concepisce cesure), si rappresenta nel segno della luce che illumina il vecchio reinventandolo per scomposizione e riassemblamento (giacché l’umano [agg.] è di là da venire nella cifra dell’antropologico: è possibile, per esempio, parlare di antropologia biblica, quando questa è superata o posta in discussione – altrimenti è lettura obbligata dell’umano, niente di più, niente di meno). Il passato, allora, diventa per definizione oscuro, la sua cifra è l’oscurantismo. Il dato che maggiormente salta all’occhio e che va a dare alla modernità il suo precipuo carattere di secolarismo è lo sganciamento dal piano sovrasensibile, che – almeno dubitativamente – è posto in discussione come aleatorio, creato. Nasce qui (dovessi fare un nome, direi: Pico della Mirandola) il sospetto che il Creatore sia semplicemente una creatura dell’uomo – un rimando. Ma – un momento! – questa cesura non è forse preesistente? Non è stata anche qui, nel Quattrocento, proiettata da una cesura antecedente? Il passaggio dall’egemonia politica e culturale greca a quella romana, per esempio. O il 476 d.C. – o, ancora, l’Anno Mille e il suo mancato appuntamento con la Fine del Mondo. 

2.2 Non viene dal vecchio tutto il nuovo? Cos’è quest’idea di cesura che rende acceleratore il progressista escatologico e frenatore l’uomo della tradizione? Quale il punto di rottura sul vettore storiografico? Con qualche semplificazione – m’auguro non eccessiva – si potrebbe rispondere: il dogma, l’absurdum che non tollera d’essere messo in discussione. L’inversione della dimensione creaturale è in ciò: sarà detta, poi, autodeterminazione. L’uomo che si pone il fine dell’autodeterminazione (gli basta il piccolo ed enorme passo dell’inversione creaturale che è in embrione in Pico) deve farsi antidogmatico. Lo strumento è ben antecedente al cosiddetto Rinascimento (anche qui: si dà nome ad un’epoca dopo che è trascorsa) – è lo strumento cinico del parresiasta, colui che formula l’inversione creaturale nella forma dello scandalo. Sul piano politico e culturale è l’eversione. Le forze che a vario titolo corrono in soccorso allo status quo cui erano allegate le categorie del Creatore devono postulare un contro-piano, una contro-eversione – una volontà di Restaurazione. Non si rimette il dogma al suo posto, né l’absurdum nel focus del credere, né si ricrea Dio come Creatore, senza restaurare. La Restaurazione non è il ritorno ad una dimensione abbandonata e intatta: è una sua ri-creazione. Perché l’eversione dell’antidogmatismo l’ha distrutta. Perché la ri-creazione è la ragione sociale di ciò che è già morto. L’uomo della tradizione non è un uomo vecchio: è un uomo nuovo nel quale le tensioni dialettiche (che nascono dal rifiuto del dogmatismo) sono irricomposte. L’uomo della tradizione non ha nessuna tradizione se non il suo surrogato (retro-)proiettato: l’uomo della tradizione è mera antitesi della modernità che è sempre hic et nunc.

2.3 Par poco, ma s’è messo in movimento quello che lo era sempre stato – solo che il movimento, hic et nunc, è avvertito. E’ ciò che è stato definito moderno (con le categorie hegeliane) col processo di graduale e costante dominio razionale del mondo da parte della ragione umana a partire dalle origini della storia. Non si arresta, invade i campi del diritto, della morale, della storia, dell’estetica, della (prego di prendere il termine in senso molto lato) psicologia. C’è un ma: in Vita activa, Hannah Arendt asserisce che il graduale e costante processo di secolarizzazione porta ad un controllo sempre maggiore sul mondo, ma ad una perdita della sua sostanza realizzata attraverso il dogma. L’uomo tende ad introiettare e ad introiettarsi: in sé elabora un’idea del vecchio che contrasta il nuovo. Il meccanismo nevrotico è evidente nella drammatizzazione dicotomica. Se il nuovo diventa una meta pre-definita (ri-creazione del paradiso terrestre), il meccanismo nevrotico è quello del progressista escatologico: magia, eppoi mito, eppoi religione, eppoi scienza – il progresso diventa inarrestabile, ma anche unidirezionale. Se il nuovo diventa, invece, elemento di disgregazione (di barbarie: è il capovolgimento valoriale dell’uomo della tradizione, che chiama barbarie ciò che il nuovo tende a liquidare come oscurantismo), la tradizione parla con le parole di Fatima – e la Restaurazione non può passare che attraverso il Castigo Divino.

3 Magia, mito, religione, scienza – ovunque si ponga il credere qui absurdum, si crea un Creatore. Anche se si pone sulla scienza? Sì, la nevrosi non perde tensione escatologica, riparatrice dell’inadeguatezza, anzi. E allora? Dov’è la lisi? Nella perdita di meta – direi nell’andare “oltre la speranza” – nella rinuncia al lenitivo dell’idea di perfezione. Raggiunta questa rinuncia, il passo sarà progressivo, ma senza meta: il graduale (e più o meno costante) saper risolvere problema dopo problema nella acquisita coscienza che i problemi non finiscono mai. L’uomo li pone, è la sua specialità. Che cosa affascinante. Faticosissima, ma affascinante.